Google: tra record in Borsa e maxi-multa sulla privacy, in 24 ore

da | 4 Set 2025 | Tecnologia

Per Google non c’è stato neppure il tempo di festeggiare la vittoria in tribunale sul fronte antitrust che subito è arrivata una nuova batosta legale.

Nel giro di ventiquattr’ore il colosso di Mountain View ha infatti vissuto due giornate agli antipodi: prima l’entusiasmo per la decisione del giudice federale Amit Mehta, che ha evitato lo smembramento di Alphabet consentendo a Google di mantenere il controllo sul browser Chrome e sul sistema operativo Android.

Poi, però, è arrivata la doccia gelata del verdetto in una class action sulla privacy che obbliga l’azienda a pagare 425 milioni di dollari.

Il rally in Borsa dopo la sentenza antitrust

Martedì, con la notizia della sentenza a lei favorevole, le azioni di Alphabet hanno chiuso con un rialzo di oltre il 9%, raggiungendo un massimo intraday di 231,31 dollari e aggiungendo circa 210 miliardi di dollari alla capitalizzazione di mercato.

Si tratta di una spinta che ha permesso al titolo di mettere a segno da inizio anno un guadagno vicino al 22%, meglio dell’indice S&P 500, anche se ancora dietro a Meta.

La decisione del giudice Mehta ha sancito che Google non potrà più vincolare produttori di dispositivi e sviluppatori di browser con accordi esclusivi che impediscano la presenza di motori concorrenti. La società però potrà continuare a versare i propri pagamenti miliardari ad Apple e ad altri partner per restare l’opzione di ricerca predefinita.

È una distinzione che rassicura gli investitori, perché quei pagamenti rappresentano una fonte enorme di ricavi e rafforzano la possibilità di una futura integrazione di Gemini, l’IA di Google, sugli iPhone.

La condanna nella class action sulla privacy

La festa è però durata poco. Ieri, una giuria federale di San Francisco ha stabilito che Google dovrà versare 425 milioni di dollari per aver continuato a raccogliere dati degli utenti anche quando questi avevano disattivato la funzione “Attività web e app” nei loro account.

La class action, avviata nel 2020, accusava l’azienda di aver raccolto e utilizzato per otto anni le informazioni provenienti da milioni di dispositivi, anche attraverso app come Uber, Venmo e Instagram di Meta. Gli utenti avevano chiesto risarcimenti per oltre 31 miliardi di dollari ma la giuria ha condannato Google solo su due capi d’accusa su tre.

Qui la distinzione è importante: i giurati hanno stabilito che Google sia responsabile della violazione della privacy ma non hanno ravvisato la malizia (“malice”), cioè l’intenzionalità dolosa di ingannare deliberatamente gli utenti per danneggiarli o arricchirsi in violazione consapevole della legge. Per questo non sono stati concessi danni punitivi, che negli Stati Uniti possono arrivare a cifre molto più alte dei risarcimenti compensativi.

La linea difensiva di Google, secondo cui i dati raccolti erano “non personali, pseudonimizzati e archiviati in luoghi sicuri e criptati”, non ha convinto del tutto ma ha probabilmente pesato nel giudizio sulla mancanza di malizia.

L’azienda comunque ha già annunciato ricorso: «Questa decisione fraintende il funzionamento dei nostri prodotti», ha dichiarato il portavoce Jose Castaneda.

Le altre cause legali di Google

Il giudice Richard Seeborg ha certificato la causa come class action, estendendola a circa 98 milioni di utenti e 174 milioni di dispositivi. Ma questo non è un episodio isolato nella travagliata storia legale di Google sul fronte della privacy.

All’inizio del 2024 la società ha accettato di pagare quasi 1,4 miliardi di dollari per chiudere una vertenza con lo Stato del Texas, accusata di aver violato le leggi locali sulla protezione dei dati.

Pochi mesi dopo, in aprile, ha concordato di distruggere miliardi di registrazioni relative alla navigazione privata degli utenti, in seguito a una causa che sosteneva che l’azienda avesse tracciato persone convinte di navigare in modalità “Incognito”.

La parabola degli ultimi giorni riassume bene la condizione attuale del gruppo guidato da Sundar Pichai: un gigante capace di far brillare Wall Street con numeri record ma che continua a pagare a caro prezzo la sua gestione opaca dei dati degli utenti.

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