Nel cuore della Silicon Valley, la febbre dell’intelligenza artificiale non si misura più solo in chip o data center, ma anche in esseri umani.
Mercor, startup fondata nel 2023 da tre studenti universitari che hanno abbandonato gli studi, è diventata in pochi mesi uno dei nomi più discussi dell’ecosistema IA, reclutando persone reali per addestrare i chatbot.
È un’idea tanto semplice quanto redditizia, che ha spinto la sua valutazione a 10 miliardi di dollari e ne fa uno degli esempi più lampanti del nuovo mercato dell’“outsourcing cognitivo”.
Nata come piattaforma per la selezione del personale, Mercor ha capito prima di altri che le competenze raccolte per le aziende tech potevano trasformarsi nella materia prima dell’intelligenza artificiale. Dalla selezione dei curriculum al reclutamento di esperti, il passo è stato breve.
Oggi gestisce una rete di oltre 30.000 collaboratori in tutto il mondo, tra avvocati, medici, banchieri, giornalisti e professionisti di ogni settore, incaricati di valutare le risposte dei chatbot e perfezionare i modelli linguistici di aziende come OpenAI e Anthropic.
Professionisti che addestrano le IA che li sostituiranno
L’ascesa di Mercor mette a nudo un paradosso del nostro tempo: l’intelligenza artificiale ha bisogno di intelligenza umana per funzionare.
In questa nuova industria dell’addestramento, professionisti altamente qualificati vengono ingaggiati per insegnare alle macchine a ragionare, argomentare, diagnosticare o scrivere con sensibilità e competenza.
Un medico può guadagnare fino a 170 dollari l’ora per valutare risposte mediche generate dall’IA; un esperto di politica, invece, può essere pagato per individuare bias ideologici nelle risposte dei modelli, segnalando dove un chatbot tradisce inclinazioni conservative o progressiste.
Dietro questa monetizzazione della conoscenza si nasconde però una contraddizione: molti di questi lavoratori stanno contribuendo a costruire sistemi che un giorno potrebbero ridurre il bisogno delle loro stesse professioni.
È la frontiera del lavoro cognitivo, dove l’umano non viene sostituito ma arruolato nella formazione del suo sostituto.
La rivalità con Scale AI
La fortuna di Mercor è cresciuta parallelamente al momento più controverso per Scale AI, la società simbolo dell’etichettatura dei dati.
Dopo che Meta ha investito 14 miliardi di dollari per acquistare quasi la metà di Scale, la startup si è infatti ritrovata sotto accusa per i potenziali conflitti di interesse conseguenti il rischio di perdita di neutralità.
Il trasferimento del suo fondatore, Alexandr Wang, a Meta per guidare i progetti di intelligenza artificiale del gruppo, ha alimentato queste perplessità e il vuoto di fiducia ha aperto la strada a Mercor. La quale, secondo fonti vicine all’azienda, avrebbe quadruplicato i ricavi nel giro di pochi mesi.
Il clima di competizione si è poi acceso ulteriormente quando Scale ha citato in giudizio Mercor, accusandola di aver assunto un proprio ex dipendente e di averne sfruttato le informazioni riservate. La disputa è oggi al centro di una causa nei tribunali americani.
La conoscenza a cottimo di Mercor
Dietro la corsa ai modelli fondazionali si nasconde allora un’economia che monetizza al minuto la competenza professionale. Secondo le tariffe medie riportate da Mercor, un cliente che paga 100 dollari l’ora per un “data labeler” ne fa arrivare circa 65–70 al lavoratore, con il resto trattenuto dalla piattaforma.
La media delle retribuzioni si aggira intorno agli 85 dollari l’ora, in una giostra globale che remunera non solo chi sa programmare ma anche chi sa giudicare la qualità delle risposte prodotte dall’intelligenza artificiale.
Mercor insomma non vende chip né algoritmi: vende la mente umana, un’ora alla volta. E nel farlo ci ricorda che l’intelligenza artificiale resta ancora una storia scritta da mani umane. Anche se qualcuna di quelle mani, un giorno, potrebbe non servire più.
Fonte: The Wall Street Journal


