Quando a fine settembre Sam Altman ha contattato le agenzie di talenti per discutere del nuovo Sora 2, il clima era già carico di sospetto.
Il CEO di OpenAI, insieme al suo team formato da Brad Lightcap, Rohan Sahai, Varun Shetty e Anna McKean, aveva presentato il lancio dell’app come un passo avanti “responsabile”. Ossia, una piattaforma che avrebbe permesso agli utenti di generare video basati su proprietà intellettuali note, ma con nuove garanzie di tutela per attori e creatori.
In realtà, quelle garanzie si sono rivelate inconsistenti. A Hollywood, raccontano i dirigenti delle principali agenzie, nessuno riceveva le stesse risposte: a qualcuno veniva promesso un sistema di consenso esplicito, l’“opt-in”, ad altri veniva detto il contrario, ovvero che i volti e le voci dei loro clienti sarebbero apparsi in Sora salvo una richiesta di esclusione.
Le agenzie contro Sam Altman
Non l’ha presa certo bene la William Morris Endeavor (che rappresenta, tra gli altri, Matthew McConaughey, Michael B. Jordan e Ryan Reynolds), quando ha scoperto che i propri assistiti avrebbero dovuto “optare per l’uscita” per evitare di comparire nei video generati.
“Immaginate un agente che chiama un attore per proporgli di entrare in Sora: verrebbe licenziato all’istante”, ha raccontato uno dei partner della WME. Dopo giorni di trattative, OpenAI ha garantito che nessuna immagine sarebbe stata usata senza consenso, ma l’impressione rimasta alle agenzie è quella di un gioco delle tre carte.
“Sapevano perfettamente cosa stavano facendo lanciando la piattaforma senza tutele né barriere”, ha detto un dirigente che ha partecipato ai colloqui.
Quando Sora 2 è arrivata sull’App Store, il 30 settembre, si è capito perché. L’app consentiva agli utenti di creare contenuti con i volti e le voci di personaggi riconoscibili tratti da film, serie e videogiochi di successo, senza bisogno di autorizzazioni esplicite.
Gli studios potevano segnalare i titoli da escludere ma solo manualmente e uno per uno, attraverso un link che funzionava come un modulo di segnalazione di violazione. Un sistema lento, frammentario, e privo di reale valore legale.
Le major sulla difensiva
La Motion Picture Association, la principale lobby di Hollywood, ha criticato apertamente OpenAI, seguita da CAA, UTA e WME. Disney ha inviato una lettera durissima, affermando di “non essere tenuta a rinunciare all’inclusione delle proprie opere” per difendere i propri diritti.
Ma la reazione delle major è rimasta timida. Pur irritate dall’aggressività della Silicon Valley, le grandi case di produzione non vogliono infatti precludersi future partnership con le stesse aziende contro cui oggi puntano il dito.
Alcuni dirigenti vedono infatti nell’intelligenza artificiale un’opportunità di rilancio, grazie alla possibilità di creare contenuti interattivi a pagamento, sul modello di Sora, utilizzando i propri personaggi in un ecosistema controllato.
Un’app di IA di Disney capace di ricreare tutti i personaggi degli universi suoi, Marvel e Star Wars, per fare un esempio, sarebbe la nuova frontiera del licensing digitale, e nessuno vuole restarne fuori.
Gli autori senza diritti
La frattura tra agenzie e studios nasce anche da una questione strutturale. Gli attori e i creativi rappresentati dalle agenzie non possiedono quasi mai i diritti sulle opere a cui partecipano, poiché operano in regime di “work for hire”. Lavorano cioè su commissione e i diritti appartengono agli studios.
Questo rende difficile qualsiasi azione legale diretta contro l’uso non autorizzato delle loro immagini o creazioni. Il risultato è un campo di battaglia diviso: le agenzie difendono i volti, le major le licenze, mentre OpenAI continua a muoversi nello spazio grigio tra le due.
Dopo quella contro Napster di molti anni fa, oggi si sta combattendo la seconda guerra del copyright, con la differenza che Hollywood sembra ancora più in ritardo di quanto non lo fu l’industria della musica.
Le aziende di IA, forti di grandi capitali e dell’abitudine a chiedere perdono anziché permesso, avanzano più velocemente di quanto il sistema legale possa inseguirle.
E se l’industria dell’intrattenimento non troverà presto una posizione unitaria, rischia di consegnare a Sam Altman non solo i suoi personaggi ma anche il controllo sul futuro stesso dell’immaginario collettivo.
Fonte: The Hollywood Reporter


