I fondali marini rischiano di diventare il prossimo teatro della corsa globale alle materie prime. A lanciare l’allarme è The Verge, secondo cui l’amministrazione Trump sta aprendo la strada allo sfruttamento minerario delle acque profonde con un ordine esecutivo che bypassa il quadro normativo delle Nazioni Unite.
Si tratta, inutile dirlo, dell’ennesimo strappo con la comunità internazionale, che alimenta anche lo scontro con Pechino per il controllo delle catene di approvvigionamento dei minerali critici.
L’ossessione per le batterie e la sfida alla Cina
Alla base di questa accelerazione non c’è tanto la volontà di favorire la transizione energetica, quanto la strategia di ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina nelle catene di approvvigionamento dei minerali critici.
Litio, nichel, cobalto e manganese sono indispensabili per le batterie che alimentano non solo auto elettriche e impianti rinnovabili, ma anche dispositivi elettronici e tecnologie militari.
Trump guarda quindi all’estrazione sottomarina come a un modo per rafforzare la competitività americana e riaffermare il primato di Washington in un settore strategico.
Lo scontro col diritto internazionale
Il problema è che l’apertura unilaterale degli Stati Uniti rischia di far saltare decenni di equilibrio fragile. Dal 1982 la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) e la sua emanazione, la International Seabed Authority (ISA), hanno costruito un impianto regolatorio per gestire in modo condiviso le risorse degli abissi.
L’UNCLOS definisce infatti i fondali come “patrimonio comune dell’umanità” e vieta espressamente lo sfruttamento da parte di singoli governi. Più di 160 Paesi hanno ratificato la convenzione, anche se tra gli assenti spiccano proprio gli Stati Uniti.
La mossa di Trump rappresenta quindi una rottura senza precedenti, tanto da spingere l’ISA ad aprire un’indagine sul rispetto dei contratti già in vigore.
Il paradosso della transizione verde
Gli scienziati e le associazioni ambientaliste lanciano un comprensibile grido d’allarme. A oggi, i fondali oceanici restano in gran parte inesplorati e le ricerche sul possibile impatto delle attività estrattive sono limitate.
Le prime evidenze indicano che i macchinari, i sedimenti sollevati e il rumore potrebbero avere conseguenze devastanti sugli ecosistemi marini, con danni difficilmente reversibili. Per questo oltre 30 Paesi, tra cui diversi dell’Unione Europea, hanno chiesto una moratoria o addirittura un divieto totale fino a quando non ci sarà maggiore chiarezza scientifica.
La contraddizione è evidente: la corsa ai minerali degli abissi nasce non solo per i suddetti motivi di carattere strategico ma anche per assecondare la transizione energetica, rischiando però di compromettere in modo irreparabile la salute degli oceani, pilastro fondamentale della vita sul pianeta.
I sostenitori dell’estrazione in acque profonde replicano che l’alternativa non è priva di conseguenze: le miniere terrestri hanno già provocato deforestazione, conflitti sociali e accuse di lavoro minorile. Secondo la Deep Sea Conservation Coalition, invece, la vera soluzione sta nel riciclo e nello sviluppo di nuove tecnologie di accumulo, dalle batterie al litio ferro fosfato a quelle al sodio-ione, che ridurrebbero la pressione sulla domanda di minerali critici.
La regione più ambita è la Clarion-Clipperton Zone, tra Hawaii e Messico, una zona che la comunità scientifica considera di enorme interesse biologico: fino al 90 per cento delle specie raccolte per gli studi recenti sono completamente nuove per la scienza.
Lì, però, i noduli polimetallici ricchi di nichel e cobalto si concentrano sul fondale a migliaia di metri di profondità, facili da raccogliere. Per la cronaca, Trump terrebbe uno di questi noduli su una delle sue scrivanie, stando a quanto dichiarato dal presidente e CEO di TMC, Gerard Barron.
Sul fondo del mare si giocherà dunque il nuovo far west dell’estrazione, tra appetiti industriali e timori ambientali, mentre la Casa Bianca sceglie la linea dura, cioè andare avanti comunque.
Lanciando un guanto di sfida che potrebbe ridefinire il futuro delle relazioni geopolitiche e, anche, quello della salute dei nostri oceani.


