Meta ha annunciato il termine dei suoi programmi di diversità e inclusione (DEI), segnando una netta inversione rispetto alla politica aziendale seguita negli ultimi anni per promuovere un ambiente di lavoro più equo e inclusivo per donne e gruppi sotto-rappresentati.
La decisione, comunicata dal vicepresidente delle risorse umane Janelle Gale, implica l’abolizione di una serie di iniziative mirate a diversificare la forza lavoro e i fornitori dell’azienda.
Tra le misure interrotte ci sono anche gli obiettivi di aumentare la quota di donne e minoranze in posizioni di leadership, nonché l’obbligo di garantire pool di candidati diversificati per ogni assunzione.
Maxine Williams, la Chief Diversity Officer dell’azienda, assumerà un nuovo ruolo focalizzato sull’accessibilità e sull’engagement, mentre Gale ha spiegato che la decisione riflette un cambiamento nel modo di approcciarsi ai temi della diversità, in linea con le evoluzioni legali e sociali degli ultimi anni.
Zuckerberg: “ambiente troppo neutralizzato”
La notizia ha suscitato un ampio dibattito, con il CEO di Meta, Mark Zuckerberg, che ha rilasciato dichiarazioni in cui ha espresso il suo punto di vista su come l’ambiente aziendale stia evolvendo. In un’intervista con il podcaster Joe Rogan, Zuckerberg ha spiegato di ritenere che in molte aziende l’ambiente culturale sia diventato troppo “neutralizzato”.
“Si vuole che le donne possano avere successo e… avere aziende che possano sbloccare tutto il valore derivante dall’avere persone eccezionali, indipendentemente dal loro background o genere”, ha detto Zuckerberg. Che poi ha aggiunto: “Ma penso che queste cose possano sempre andare un po’ troppo oltre.”
Secondo il CEO di Meta, pur essendo necessario garantire pari opportunità a tutti, questi sforzi devono essere bilanciati con la necessità di mantenere standard elevati e un’adeguata selezione del personale.
Il punto di svolta: la decisione della Corte Suprema
Il passo di Meta arriva in un momento in cui molte aziende della Silicon Valley stanno rivedendo le proprie politiche di diversità e inclusione.
Questo trend è stato accelerato da una serie di sviluppi legali, tra cui la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti del 2023 che ha ribaltato le cosiddette “politiche di azione affermativa” nelle ammissioni universitarie.
Questa espressione sta a indicare i criteri nelle ammissioni universitarie misure adottate da molte università per promuovere la diversità e favorire l’accesso all’istruzione superiore per gruppi storicamente svantaggiati, come minoranze etniche, donne e persone provenienti da ambienti socioeconomici inferiori.
L’idea alla base di queste politiche era che, in assenza di interventi da parte delle facoltà, alcuni gruppi avrebbero avuto meno opportunità di accedere a università prestigiose a causa di barriere sistemiche, discriminazione storica o disuguaglianze nell’accesso alle risorse educative.
Le università, pertanto, avevano iniziato a considerare diversi fattori, tra cui la razza, il genere e lo status socioeconomico, come parte del processo di selezione degli studenti, in aggiunta ai punteggi dei test standardizzati, ai voti scolastici e ad altri meriti.
Questo approccio mirava a garantire una maggiore rappresentanza e equità nel corpo studentesco, cercando di correggere squilibri storici e promuovere l’inclusività. Ma ha creato situazioni nelle quali i candidati bianchi o cisgender si sono trovati penalizzati.
I critici delle politiche di azione affermativa sostengono che portano a una discriminazione al contrario, creando quindi ingiustizie nei confronti di persone che, pur appartenendo a gruppi maggioritari come i bianchi o i cisgender, si trovano a non avere le stesse opportunità in virtù della loro razza o genere.
Arriviamo così al 2023, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato una sentenza che permetteva l’uso della razza come uno dei criteri nelle ammissioni universitarie, ritenendo che queste politiche violassero il principio di parità di trattamento garantito dalla Costituzione.
L’indietro tutta dell’industria
Tale sentenza ha spinto molte aziende a riconsiderare i propri programmi DEI, ritenuti da alcuni troppo orientati verso categorie protette come razza e genere, con l’accusa di non considerare abbastanza il merito individuale.
E sia chiaro, non è solo Meta ad aver adottato misure simili. In passato avevamo scritto dell’abbandono delle politiche DEI da parte di Harley Davidson. A questa si sono aggiunte McDonald’s, Walmart, Toyota e Boeing, solo alcune delle aziende che negli ultimi mesi hanno annunciato la sospensione di programmi di diversità o la rimozione di obiettivi di rappresentanza.
A dicembre, anche Amazon ha modificato il linguaggio riguardante i diritti dei dipendenti neri e transgender, rimuovendo alcune dichiarazioni relative alla DEI dalla sua pagina ufficiale.
Meta nel guado
Questi cambiamenti si inseriscono in un contesto più ampio di crescente opposizione alle politiche di diversità e inclusione, alimentata soprattutto da critiche provenienti da gruppi conservatori e da un cambio di orientamento nelle politiche pubbliche.
Meta, come molte altre aziende, si trova ora a dover bilanciare le esigenze di diversità con quelle di meritocrazia e sostenibilità aziendale, in un contesto politico sempre più complesso e polarizzato.
Il dibattito è destinato a proseguire, mentre altre aziende e istituzioni monitorano da vicino gli sviluppi legali e le reazioni sociali a queste modifiche alle politiche di DEI.
Mentre i sostenitori del cambiamento affermano che si tratti di un adeguamento necessario alle nuove realità sociali e legali, i detrattori temono che ciò possa comportare un indebolimento della protezione per le categorie più vulnerabili.


