Google lancia il suo primo spot con l’IA, ma dimentica la trasparenza

da | 3 Nov 2025 | IA

Il primo spot di Google interamente generato con l’intelligenza artificiale ha come protagonista un tacchino di peluche. E non è un caso.

Dopo mesi in cui brand minori come Ritual, Coign e Kalshi hanno già sperimentato campagne col suo sistema generativo Veo 3, il colosso di Mountain View ha deciso di scendere in campo.

Ma lo ha fatto con una scelta precisa: nessun volto umano, nessun realismo disturbante, nessuna uncanny valley. Solo un animale di stoffa che fugge dalla fattoria per raggiungere un luogo dove, buon per lui, il Giorno del Ringraziamento non lo si festeggia.

Dietro la leggerezza del racconto, c’è un chiaro posizionamento strategico. Google vuole presentare la propria intelligenza artificiale come qualcosa di rassicurante, familiare, quasi infantile.

Una tecnologia che non sostituisce ma accompagna, e che può raccontare storie dal tono tenero e ironico. Il tacchino di peluche pare allora una sagace presa di distanza dalle inquietudini che l’IA suscita quando prova a replicare gli esseri umani.

Un’IA che non deve sembrare tale

Lo spot, nato all’interno del Creative Lab di Google, si inserisce in un progetto più ampio, la campagna “Just Ask Google”. Con essa l’azienda vuole far percepire la propria IA come parte integrante dell’esperienza quotidiana, ma amichevole e non minacciosa.

“Nel marketing a volte la gente sembra ubriaca di intelligenza artificiale”, ha spiegato Robert Wong, cofondatore e vicepresidente del laboratorio creativo. “Come a dire: ‘Userò un po’ di IA così posso dirlo al mio capo.’ Ma ai consumatori non importa se uno spot è stato fatto con l’IA o meno.”

L’affermazione rivela molto dell’approccio di Google: l’IA deve servire il racconto, non rubargli la scena. Per questo, spiega Wong, Veo 3 è stato usato come strumento di creazione, ma lo stile visivo richiama volutamente i film di animazione natalizi, giocando sulla nostalgia e sull’emotività, più che sulla potenza tecnologica.

Google e la contraddizione della trasparenza

Eppure, proprio questa dichiarazione (“ai consumatori non importa”) suona stonata visto il momento storico in cui Google si trova. L’azienda è tra i promotori mondiali delle politiche di trasparenza sui contenuti generati dall’IA, dal watermark digitale alle Content Credentials sviluppate insieme al consorzio C2PA.

Però ha deciso di non etichettare in modo chiaro il proprio spot come creato con l’IA. O meglio: per capirlo bisogna entrare nella descrizione del video e scorrere il testo fino in fondo. Diciamo che un watermark sarebbe stato preferibile.

Un difficile equilibrio

Il progetto di Google è, a suo modo, un esperimento interessante che denota un certo equilibrismo. Coinvolgendo maestranze umane nella fase finale della produzione, l’azienda riesce a evitare le polemiche che da mesi circondano l’intelligenza artificiale come minaccia per il lavoro creativo.

In questo caso, l’IA non sostituisce (non del tutto almeno) i professionisti della computer graphic, ma diventa un supporto che accelera i processi senza cancellare la componente umana.

È una linea sottile ma non trascurabile, con la quale Google mostra che si può usare la potenza dei modelli generativi senza scivolare nell’automatismo totale, mantenendo l’elemento umano come parte integrante del linguaggio visivo.

Sarà interessante vedere come reagiranno i concorrenti e quanti altri spot nasceranno nei prossimi mesi creati sì dall’IA, ma cercando una collaborazione tra uomo e macchina che non escluda, ma esalti, la creatività umana.

Un equilibrio che, finora, campagne come quelle di Ritual, Coign o Kalshi non sono ancora riuscite a trovare.

Fonte: The Wall Street Journal

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